lunedì 5 dicembre 2011

La Padania non esiste.


L’impressione è quella che tutto ad un tratto la politica abbia perso interesse fra le persone.
Da quando Berlusconi si è dimesso, e abbiamo almeno apparentemente inaugurato la terza repubblica, entrando nei bar, nei supermercati, nei centri commerciali, i discorsi che capto sono cambiati. La vittoria di Pisapia a Milano ci aveva dato le prime avvisaglie che lo show stava per terminare, che a breve ci sarebbe stata una virata netta, che tutti i nodi, finalmente sarebbero venuti al pettine. Da quando il nuovo governo si è insediato, i talk show televisivi mi appaiono più pacati, meno rissosi e anche meno divertenti! Sarà una mia impressione, ma proprio le persone mi sembrano cambiate. Tutte consapevoli del brutto momento che stiamo passando e tutte disposte a cercare delle soluzioni convincenti. Perfino la Padania sembra non esistere più. Il nemico, almeno apparentemente, è stato battuto (sfido a trovare ancora berlusconiani convinti), è stato costretto a lasciare. Purtroppo ha fallito. Trovarsi senza un nemico da combattere però può essere altrettanto frustrante di non riuscire a batterlo. Questo governo tecnico ci ha chiesto dei sacrifici enormi, eppure non credo succederanno grandi rivolte o cose del genere. Nel governo Monti nessuno di noi riesce a legittimare un solo personale avversario politico, è questa la novità. Nessuno li conosce. Non conosciamo la loro storia, la loro coscienza politica, i loro precedenti. Al momento questa è una cosa importantissima perché non c’è tempo per discutere, bisogna solo agire. Ma mi sto (anche giustamente) dilungando. Dunque: perché non sento più le persone litigare nelle piazze per difendere le ragioni di questo o quell'onorevole? A cosa è dovuta questa tregua momentanea? Le ragioni sono profonde e servirebbe un blog intero, ma una cosa è certa: la politica non è una cosa semplice e molto probabilmente per anni siamo stati convinti di parlare di essa pur parlando di altro. Ora invece, l'oggetto all'ordine del giorno sembra essere sempre più complesso e le persone preferiscono litigare solo per il calcio. Sono dell’opinione che questo, nella sua difficoltà, sia un momento di calma memorabile per l’Italia e deve essere occasione di grande riflessione per tutti. Dobbiamo godercelo e cercare di stare sereni perché neanche in così tanto tempo ognuno di noi avrà dei nuovi nemici da combattere e sarà, come sempre, dura cercare di vincerli. In un batter baleno sarà di nuovo guerra. Ma come ho detto, l’aria profuma di un decennio nuovo, molto più promettente; le persone sono diverse, lo vedo, lo percepisco e, soprattutto, la Padania non esiste, possiamo dirlo, non è mai esistita.

sabato 15 ottobre 2011

La rivoluzione in TV.
15 ottobre 2011

Seguire la rivoluzione in televisione non ti fa mai sentire bene. Avresti voluto avere il coraggio di essere lì; avresti preferito non aver paura delle pietre, dei lacrimogeni, della folla, della polizia.
Sarebbe ora, però, che quelle camionette la smettessero di correre in mezzo ai manifestanti, prima che qualcuno ci rimetta la pelle. Per ora niente da dire.
Speriamo che faccia presto notte, che scenda il freddo e che le mamme si mettano a telefono per far tornare i propri figli a casa, perché nonostante tutto sono bravi ragazzi e nessuno li sentirà piangere.

mercoledì 28 settembre 2011

Diario di un cameriere.
Tavolo 17.

Fare i camerieri non è poi tanto male. Discutevo con Pablo di quanto sia nobile come mestiere e di quanto sia importante nella vita servire l’altro. Ma a prescindere da questo, che è un concetto fin troppo figo da esprimere, esistono delle caratteristiche molto più “tangibili” e paradossalmente ancora più fighe. La cosa più divertente è che quando arrivi al tavolo con la margherita, la bistecca al sangue o le patate fritte in un olio schifoso, per pochi secondi ti intrometti con prepotenza nella vita di quelli che sono seduti e che credono sempre che tu non capisca minimamente di cosa stanno parlando. Invece capisci tutto. 
Ci sono varie categorie di clienti. Solitamente Il padre divorziato con il figlio arriva verso le 20 e 15, la famigliola “felice” alle 21 e la coppietta che ha appena finito di fare l’amore si siede passata la mezzanotte. Quando c’è poca folla puoi ammazzare il tempo girando fra i tavoli e ascoltando le conversazioni di coloro che ingordamente mangiano.

Al tavolo diciassette, una sera, c’erano seduti un ragazzo e una ragazza: lui voleva arruolarsi e lei era molto contraria a questa cosa perché la lontananza, le armi e, probabilmente, la compagnia degli altri militari la spaventavano. Ma lui insisteva e diceva che doveva andare via di casa e che gli servivano i soldi. Fondamentalmente si percepiva dai suoi discorsi che non gli importava niente della carriera militare. I due hanno continuato a litigare accesamente fino all’arrivo delle pizze; poi il cibo li ha placati, il ristorante si è riempito ed io mi sono allontanato. Quando gli ho portato il conto, li ho trovati abbracciati e mi sembrato di sentire la ragazza che gli diceva: “spero proprio che non ti prendano e ti metta in testa di continuare a cercare un lavoro normale”. Questa frase mi ha colpito molto e non so perché mi sono sentito preso in considerazione. Ho pensato di avere qualcosa in comune col suo moroso: lui voleva arruolarsi e servire la patria, io, invece, servo i tavoli, faccio il cameriere; e, sebbene sia un mestiere nobile, non è il mio mestiere! Faccio il cameriere, ma non sono un cameriere. Lui è costretto a fare il militare, ma non sarà mai un militare. Così il mondo va a rotoli, ho pensato! Se i dottori FANNO i dottori ma non SONO dottori e gli insegnanti FANNO gli insegnanti ma non SONO insegnanti, i preti FANNO i preti o SONO preti? 
Che venga l’amore allora a salvarci! Che venga una donna che non ci faccia partire, che ritornino finalmente i tempi in cui ognuno di noi possa a risistemarsi in quell’angolo di universo dove neanche un capello risulti essere fuori posto.
Con pazienza, noi tutti, continuiamo ad aspettare.

sabato 13 agosto 2011

I Braccialetti degli altri

Molte persone portano braccialetti, anelli o catenine per anni e anni incollati al proprio corpo e, col tempo, considerano questi oggetti parte integrante della loro sagoma: una forma di comunicazione che compare, in verità, fin dal principio della storia dell’uomo. L'ornamento più estremo è il tatuaggio perché, essendo indelebile, non si può più decidere di toglierlo.
A differenza del tatuaggio, dietro un braccialetto “indelebile” c’è invece una scelta che il soggetto in questione riconferma ogni santo giorno.
Io sono una di quelle persone che per anni porta sempre gli stessi gadgets! Non conosco la storia dei “braccialetti degli altri” fino a quando non me la raccontano. A volte chiedo.
Pablo ha un braccialetto sul polso sinistro e mi è venuto in mente, in questa fredda estate, di domandargli da dove venga. Mi ha così raccontato una storia: ha iniziato dicendomi che quell’oggetto lo porta con se da circa trent’anni. Facendo due conti quindi da quando ne aveva circa cinquantacinque. Al contrario di come si possa pensare, a donarglielo, non è stata una persona che egli rammenta con malinconia, non rappresenta il ricordo di un periodo felice e non apparteneva nemmeno alla buonanima di suo padre! A regalarglielo è stata una persona che lo ha reso infelice per gran parte della sua vita. “Perché lo porti con te?”, allora gli ho domandato. Mi ha spiegato che portare quel bracciale è una scommessa con se stesso, una metafora su come affrontare il nemico a viso aperto, senza disprezzo (che non è da gentiluomini) ma anche senza nessuna pietà. Bisogna amare i propri nemici, ricordarsi che essi esistono e che grazie ad essi, in qualche modo, esistiamo anche noi. E Pablo se lo ricorda. Se lo ricorda bene. Ogni giorno sceglie di indossare quell’oggetto. Ogni gesto che compie è accompagnato dalla figura sorda del suo angelo nero.
Sì! Pablo è così! Vive di queste cose, di questi strani ragionamenti, di queste false o almeno strambe convinzioni. Vi assicuro però che è molto appassionante seguire i suoi discorsi e io non riesco
a far fede con la scrittura al suo modo avvincente di raccontare.
Una cosa è certa: dietro un braccialetto, un anello, una catenina c’è sempre una storia ricca di spunti che vale la pena ascoltare. Perciò, se uscite con qualcuno e non sapete proprio di cosa parlare, scrutatelo; osservate con attenzione polsi, dita, collo e chiedete spiegazioni.

domenica 24 luglio 2011

Compagno di scuola

Una cosa mi dispiace molto: te ed io non abbiamo quasi mai scambiato una parola. Per tre anni siamo stati nella stessa classe ma non c’è stato modo di farci avvicinare. Oggi a stento ricordo il tuo nome: c'è, ma devo sforzarmi prima di focalizzare e ripeterlo ad alta voce. Altro discorso vale per il cognome; quello lo ricordo, anzi li ricordo tutti. Ce li ho stampati benissimo nella memoria proprio per come venivano elencati prima di iniziare la lezione e difficilmente li dimenticherò.  

Ma come è possibile, invece, che io non riesca a mettere a fuoco un solo discorso fatto con te? Come si spiega che in tre anni io non ti abbia mai rivolto la parola? E’ inaccettabile! E per questo, come dicevo, sono davvero in collera. Mi chiedo: sarà dipeso da me?  Ma non è importante, e ora, comunque non saprei come rimediare. Eravamo lì, nello stesso posto, ogni mattina, alla stessa ora, a fare le stesse cose e mai un caffè assieme, mai una sigaretta in bagno tra l’ora di italiano e quella di elettronica. Ci siamo ignorati per più di mille giorni, ma rispettosamente. Sarà stata una questione di odori. Potrei cercarti, chiederti come te la passi, curiosare nella tua vita come non ho mai fatto, ma resterei sempre troppo indietro. E anche tu. Che ci serva da lezione. Voglio considerarti una occasione sprecata nel bilancio della mia vita.

martedì 12 luglio 2011

I ceci non li volevo

Da piccolo mi sono sempre sentito dire: “mangia! Ai miei tempi io non avevo niente. Ringrazia Iddio”; “Io da bambino i giocattoli me li dovevo costruire”; “il pane è di ieri e non ti piace..? Io mangiavo il pane vecchio di una settimana e mio nonno lo affettava con la sega!”; “eh…quando io ero bambino tanti capricci non si facevano”.
Si! Bravi, eravate tutti dei piccoli Gesù bambino. E magari vostra mamma era anche vergine! 
Allora, se proprio volete saperlo, vi spiego io lo stato attuale delle cose e vi contringerò a pormi le vostre scuse per tutte le affermazioni che ho dovuto sopportare e prendere come "buone" nel corso del tempo.

Sono nato negli anni ottanta, cresciuto nei novanta e diventato uomo in questi famosi anni zero. Da bambino guardavo “Ciao, ciao” la mattina e "Bim-Bum-Bam" il pomeriggio. I films in prima serata iniziavano alle 20 e 30 e Pippo Baudo era molto più giovane.
Venne tangentopoli, venne Capaci. Ed io crescevo. Mi sentivo dire sempre che ero troppo schifettoso perché i ceci non li volevo. Alle soglie del duemila, a ridosso degli anni zero (un decennio da dimenticare a parte l’Italia campione del mondo e alcuni dischi dei Sigur ros), con dieci mila lire in tasca potevi sentirti veramente ricco. Poi è arrivato l’euro, la benzina è triplicata e la vita si è complicata.
Gli anni zero sono finiti. Ma la nostra generazione non esce da una situazione che più buia non si può. Pablo ha confermato quello che io pensavo da tempo: negli anni 50-60 e 70 i giovani erano molto più felici. Anche se non avevano la possibilità di studiare, vedevano prospettiva per la loro vita. Sceglievano Il/la  loro compagno/a e riuscivano a costruirla, certo con sacrificio; prima o poi però, ci si riusciva a fare anche una vacanza di un mese a Lucrino. 
Noi abbiamo avuto le biciclette, i videogiochi, i videoregistratori, la scuola calcio, il lettore cd. Probabilmente il nostro paese si è indebitato per permetterci tutto questo. Ora non abbiamo niente. Siamo laureati (e anche per la laurea ci vogliono sacrifici), informati, esperti di marketing, ingegneri aereospaziali; ma dinanzi a noi il nulla. Non possiamo sposarci, non possiamo avere figli. Viviamo nella costante paura di soccombere. Il vuoto lo riusciamo a intravedere, ed è soprattutto colpa vostra. 
Voi dovevate costruirvi i giocattoli, io devo inventarmi un’esistenza. Quindi smettetela di lamentarvi, chiedetemi scusa e ringraziate Iddio.

lunedì 27 giugno 2011

Il ricordo del pulmino giallo.
Racconto autobiografico

Ho sceso le scale di corsa come tutte le mattine. Oggi ho la certezza di non essere una persona puntuale. Alle nove meno venti ho superato quindi il portone del mio palazzo, ho incontrato la mia vicina e, con la scusa di salutarla, le ho guardato il sedere.
È tardi, e lo zaino è troppo pesante per un bambino della seconda elementare.
All’incrocio “pericoloso” (così si era soliti chiamarlo), vicino la posta, mi attende il pulmino che mi porta ogni giorno a scuola. L’autista è un tipo irascibile, sguaiato nei termini e nelle movenze; ho fatto tardi e mi rimprovera sotto le note di “Gloria”.
Nel mio "pulmino giallo" c’è Claudio, un bambino evidentemente con qualche problema; non socializza, porta gli occhiali; gli occhiali doppi. A volte si scaccola, a volte pare quasi ridere, ma da solo. Claudio è un bambino che mangia troppe merendine. Lo prendono in giro, gli dicono che è grasso, gli fanno notare gli occhiali e gli dicono che gli occhiali così doppi sono brutti, gli dicono che puzza. Dicono la verità insomma!
Assisto a questo spettacolo ogni mattino e presto ad esso la stessa attenzione che per il sedere della vicina. Due cose diverse, ma per me di uguale intensità.
Claudio ed io non siamo nella stessa sezione. Io porto il fiocco rosso, lui verde.
A me vogliono bene nel “pulmino giallo” e, mentre mi soffermo sul suo fiocco verde, mal legato o legato di fretta, i miei compagni di viaggio si accaniscono contro di lui in modo quasi malvagio: Marco gli toglie il cappello, Pietro imita gli occhiali. Lui è immobile.
Sto provando compassione, ma non conosco il termine, e quindi, non riesco a dargli una collocazione ben precisa nel mio cervello. Soprattutto non so reagire, non so cosa fare.
Una bambina buffa con i capelli neri e folti si è avvicinata a me con la bocca che le puzza ancora di sonno e mi ha porto una lettera. Non l’ho aperta ancora. Poi ho guardato il mio swatch a cristalli liquidi (un oggetto che mi rende molto fiero), sono le nove meno dieci! Piove forte ma per fortuna ho l’ombrello. Il pulmino giallo è arrivato finalmente a destinazione e il cortile della scuola ci ha accolto proprio mentre la campanella suonava. Grazie a me abbiamo fatto tardi.
Sono sceso dal "pulmino giallo" sotto l’acqua (che aveva l’odore dell’autunno) col mio orologio e con il mio fiocco rosso mentre nel frattempo gli altri continuavano a beffeggiare il chiattone occhialuto. Mi fa tanta pena, soffro davvero, è un’agonia. Quindi, appena sceso, scappo e corro sotto la grondaia per ripararmi dalla pioggia. Poi scende Claudio che, con i suoi dieci chili di troppo, trova un po’ più di difficoltà a sfrecciare. Corre come me, con lo stesso obiettivo, ma è goffo: incespica, scivola, cade. Una pugnalata. Cade per la gioia degli altri, ancora una volta ridono di lui. Secondo me si è fatto davvero male, ma si alza. Finalmente mi raggiunge nell'unico posto dove forse riesce a trovare un attimo di pace: nel mezzo, tra il pulmino giallo e la scuola. Io sotto la grondaia mi riparo dalla pioggia, lui dagli insulti. Si pulisce il pantalone, testa bassa, entra in aula col fiocco verde. Io entro nella mia e le nostre strade si separano.

Mi sono finalmente distratto e oggi ho veramente vinto tante figurine "Panini".
Sono tornato a casa e le ho riposte in una scatola che in principio conteneva dei biscotti. È strapiena. Non riesco a mangiare, anche so ho fame. Mia madre mi ha domandato spesso cosa avessi e io le ho risposto: “nulla”. Poi gliel’ho detto. Lei mi ha carezzato. Mi sento in colpa, ma lei mi ha confessato. Mi sono ricordato della lettera, ho messo la crocetta sul “SI” e mi sono fidanzato.

Claudio rappresenta oggi per me la parola compassione. Ogni volta che provo questo sentimento mi sovviene alla mente il ricordo di quel bambino e non posso non chiedermi se ce l’ha fatta, se quando è scivolato è riuscito a rialzarsi. Questo ricordo è, per me, da sempre associato al colore verde. Un gioco di simboli che il destino ha voluto confermare proprio con quella tonalità che per l'uomo rappresenta la speranza. Il non riuscire a battermi con schiaffi e cazzotti per lui è un senso di colpa che mi sono sempre portato dietro e che ritorna puntuale quando so di essere più fortunato di un altro.
Un senso di colpa pesante che ritrovai, credo proprio in quegli anni, nella prima masturbazione che poi confessai a mia madre per disperazione.
Spesso mi capita di sentire il bisogno di mettere la crocetta su una lettera d’amore o di cercare le braccia di mia madre. Guadagnare entrambe le cose in un giorno sarebbe tornare a quei tempi.

Giugno, luglio, agosto, settembre.


Il vero anno inizia a settembre. Non a gennaio. E’ a settembre che decidi di voltare pagina, che ti iscrivi in palestra, che inizi la dieta, che cambi taglio di capelli. E’ a settembre che ti accorgi che un altro anno è passato e che stai lentamente invecchiando. Le prime promesse con te stesso le inizi a fare dopo ferragosto, quando ti rendi veramente conto che l’estate sta finendo e, per l’appunto, un altro anno se ne va.
A giugno e a luglio, invece, è concesso fare un po’ tutto! Ecco le frasi più in voga per giustificare anche le cose più immorali: “e vabè, è estate”; “che fa, le giornate si sono allungate”; “se non le fai adesso ste cose, quando le fai più?”. E’ giusto, sono d’accordo anch' io: concediamo alla nostra vita qualcosa di diverso da quel rigore che in altri mesi, invece, la domina. Perché, quando arriverà ferragosto, le giornate inizieranno ad essere così brevi che passeranno più veloci dei tuoi buoni propositi; ti ritroverai così il solito ciccione, ma un anno più vecchio.

lunedì 6 giugno 2011

L'allegoria della guerra

Pablo si è fatto un’idea della guerra. L’ha vissuta, analizzata e poi metabolizzata con gli anni. Mi dice sempre che l’uomo ha bisogno ad un certo punto di distruggere, altrimenti non avrebbe nulla da ricostruire; oltre ad essere indispensabili per l’economia di un paese, esse hanno sempre apportato cambiamenti più o meno radicali alla società, trasformandola in meglio, quando si stava scivolando verso il peggiore dei mondi possibili. Vista da questo punto di vista, sembrerebbe quasi una cosa positiva. In effetti potrebbe esserlo, se non fosse che provoca morte e distruzione. E’ un discorso certo da prendere con le pinze: la guerra resta l’atto più meschino che l’uomo abbia mai potuto inventare. Nonostante questo, nessuna civiltà, nessun popolo, nessun individuo è capace a evitarla. Negli anni di pace, si covano tutti i sentimenti che esploderanno in guerra. E’ un atto masochistico, ma necessario.
Ora la questione è questa, e Pablo ed io conveniamo nel medesimo ragionamento: più i decenni passano, più le tecnologie si perfezionano, meno senso ha fare la guerra! Quando si combatteva corpo a corpo, da uomini veri e non erano gli aeri che vigliaccamente lanciano bombe sui civili, ci si poteva ritrovare in essa finanche un qualcosa di leale. I maschi adulti, si scontravano con le spade e, da così vicino, si poteva davvero sentire l’odore del nemico. Ma come dicevamo, la guerra, o per meglio dire, il modo in cui essa si manifesta, dipende dalla tecnica. Tradotto significa che più la tecnica è raffinata e più persone si possono ammazzare con il minore sforzo. Non c’è nulla di faticoso nel lanciare una bomba atomica, credo. In effetti la tecnologia ci permette proprio questo: allontanarci dalla fatica. Abbiamo così, almeno potenzialmente, anche allontanato il rischio di recarci sul campo di battaglia.  Tutti siamo consapevoli che un conflitto atomico rischierebbe di ridurre tutto e tutti in poltiglie in pochissimo tempo. Basta premere un pulsante; Basta un click! E, nell’epoca in cui le distanze sembrano, sempre grazie alla tecnica, azzerate,  anche la guerra non si sottrae a questa logica e si manifesta (si manifesterebbe) in un solo instante ma con la potenza di tutte le guerre mai fatte dall’uomo.
Ma esiste una soluzione rivoluzionaria: trasmigrare tutti i valori di una vera guerra, in una guerra finta. Una sorta di allegoria della guerra. Ho cercato di spiegarla a Pablo, ma lui davvero non riesce a capire a cosa mi riferisco. Bisogna masticare un po’ di rete, essere al passo coi tempi. Lui non sa nemmeno cosa sia un computer. Se un conflitto si riducesse un giorno davvero solo nel pigiare tasti e guidare bombe telecomandate, sarebbe preferibile, anche in senso economico, organizzare una guerra digitale, con tanto di promessa o di giuramento: chi perde, paga.  Una specie di battaglia navale virtuale, che arrecherebbe pochissime spese alle nazioni e occuperebbe il tempo in modo alternativo ai presidenti. Sarebbe addirittura non remoto pensare a un’intera nazione dove ogni singola persona ha la possibilità di partecipare alle ostilità direttamente da casa sua, con tanto di pausa pranzo e senza alcun rischio di perdere la vita o di veder morire i propri cari. Perché noi la guerra ce l’abbiamo dentro, ci è indispensabile, come il pane, e in questo modo, almeno virtualmente, torneremo a combattere corpo a corpo, come un tempo, da veri uomini.

venerdì 27 maggio 2011

La ricetta di Pablo

Pablo non mi da l’impressione di essere una persona sola. Nonostante da tanti anni cucini solo per lui, non ha perso la voglia di mangiare di gusto. Ieri mi ha invitato a cena e mi ha fatto assaggiare un piatto molto saporito. Mi ha detto che è l’ideale per quando hai poche cose in casa e devi rimediare qualcosa in poco tempo; poi ha specificato che a lui piace molto e lo prepara spesso. “Tagli una cipolla a pezzettini, la fai soffriggere con carote e sedano e poi aggiungi mezzo dado; sul finire, una spruzzatina di vino bianco, un po’ di noce moscata e il piatto è servito”. “Cotto e mangiato”, gli ho detto, facendo la Parodi(a). Ma lui non sapeva di cosa parlavo. E pensare che io so di chi, invece, si masturba pensando alla bella Benedetta. Ha tenuto a specificare più volte che questa ricetta non è semplicissima da preparare; bisogna fare molta attenzione alla quantità degli elementi che la costituiscono. Troppa carota renderebbe tutto troppo dolce ad esempio. Se esageri con la noce moscata invece, il piatto assumerebbe un sapore troppo forte rischiando di renderlo non piacevole al palato. Per la buona riuscita di questa ricetta poi, tutto deve essere proporzionato alla quantità di cipolla che metti. La cipolla è l’elemento essenziale. Il dado è un particolare da non sottovalutare, ma poi attento al sale. Il dado è già salato di suo. La spruzzatina di vino rende il piatto più saporito. In pochi minuti, risolvi una serata improvvisata e buongustaia, come quella di stasera fra me e Pablo. Abbiamo chiacchierato mentre la pasta si cuoceva e lui era arzillo più che mai. Non è il classico anziano che attacca a parlare di guerra e non la finisce più, anzi, sono io che a volte gli chiedo di raccontarmi quegli anni, di quali fossero i loro discorsi, di quale era la loro prospettiva di vita. Lui ama filosofeggiare sulle cose semplici e sugli oggetti che lo circondano attraverso ragionamenti che, se solo ti applicassi un po' di più, non avrebbero alcun senso, ma che allo stesso tempo risultano sempre affascinanti.
Ci siamo seduti; la pasta ha davvero un bell’aspetto. Mi ha colpito in particolare il colore del piatto. Mentre mangiavamo mi ha accennato ad una sua particolare e, devo dire, abbastanza condivisibile teoria culinaria: ogni piatto è una metafora della vita. A suo modo l’equilibrio di ogni pietanza dipende esclusivamente dalle dosi dei rispettivi ingredienti utilizzati. Pablo porta rispetto ad un piatto di spaghetti al sugo, come porta rispetto alla Gioconda di Leonardo. Infatti, mi ha detto: "esistono vite salate, ben condite, scipide, aspre". Ho notato un po’ di amarezza nelle sue parole e suoi occhi mi raccontavano di chi già conosce il sapore del piatto che la sua vita ha generato; perché quando la cipolla è tanta ti serve più carota, di conseguenza più sedano, più dado, più vino; perché cucinare è un arte, e mangiare, ci rende ancora vivi.  

domenica 22 maggio 2011

L'economia del disordine

Sistemare i cassetti dove ci sono i vestiti, ti riserva sempre miriadi di sorprese, soprattutto quando non lo fai da diversi anni. Come per magia, dagli scompartimenti che stai svuotando, saltano fuori, solitamente, le seguenti categorie di cose: magliette che cerchi da mesi, costumi con i fiori, calzini dispari, mutande rosse e cinture discutibili. Talvolta, puoi trovarci anche oggetti che, in una casa perbene, non ci dovrebbero essere.
La cosa che a me risulta più difficile però, non è la mole di lavoro che sei costretto a fare: svuotare, dividere, organizzare e poi ancora piegare e ripiegare, ma quella di mettere via le cose che non utilizzo più da tempo. Vorrei conservarle tutte per ricordo. Ma qualcosa si dovrà pur buttare, altrimenti sarò costretto a uscire io dalla casa.
La questione “ricordi”, oggi, l’ho superata facilmente; mi sono avvicinato all' armadio e ho iniziato. C’era tanta roba che non metto più da anni in quei cassetti, come, appunto, quelle cinture discutibili di cui sopra. Ho svuotato tutto e appoggiato sul letto. Ho riempito due buste dividendo quello che avevo davanti in “cose da buttare” e “cose da donare” e, dopo una pausa, ho cominciato a risistemare iniziando a riporre all’interno del mobile quello che volevo tenere. Intimo nel primo cassetto; maglioni nel secondo; magliette a mezze maniche e qualche bermuda nel terzo;  tute, calzoncini, maglie da calcetto e abiti da sport, invece, li ho riposti nel quarto e ultimo scompartimento.
Mentre riempivo di nuovo i cassetti dei vestiti sopravvissuti all’eccidio, ho iniziato a rendermi conto che non sarei mai riuscito a infilarci dentro tutta quella roba in modo ordinato. Non era possibile! Erano meno pezzi ma occupavano più spazio. Come a dire che per combattere il traffico, un comune dovrebbe incentivare l’acquisto di automobili. Ma le auto non sono vestiti ed è anche per questo moriamo di cancro. In ogni caso, deve essere proprio in quel momento che ho capito che il disordine, a volte, almeno per quanto riguarda i vestiti, è più economico rispetto allo spazio occupato. In realtà lo definirei un disordine ordinato; nel senso, più brutto da vedere, ma fondamentalmente più efficiente. Con i cassetti in disordine, inoltre, i vestiti  non piegati si mescolano tra loro e, quando li indossi, sono già fatti l’uno per l’altro. La soluzione è stata che ho dovuto utilizzare anche parte di un altro armadio!
I ricchi, che si presuppone abbiano abiti adatti a ogni singola occasione e una quantità di vestiti di gran lunga superiore alla mia, sono costretti a scegliere quindi tra due filosofie di vita: la casa piena di armadi, o il disordine.
Io non ho invece alcuna possibilità di scelta: ho un solo armadio e non sono ricco.

mercoledì 18 maggio 2011

Miracolo a Milano

Dal film "Miracolo a Milano" di V. De Sica.
Miracolo a Milano, dunque! Ma anche miracolo a Napoli. Ho chiesto a Pablo se sentisse quest’aria di cambiamento, di “rivoluzione”. S’è fatto una grassa risata. Pablo non vota più da molti anni. Quando me l’ha detto, l’ho rimproverato. Lui mi ha spiegato che, dal mio punto di vista, faccio bene a rimproverarlo e mi ha fatto capire che ne ha le palle piene. A ottantacinque anni gli basta quello che ha. Un discorso fottutamente egoistico, ma che non fa una piega. Chiunque andasse al potere non gli toglierebbe il suo divano, i libri che ama, il piacere di mangiare. Ho la sensazione che le cose vadano proprio così: più giovane sei e più sei disposto a perdere quello che hai guadagnato, o che non hai guadagnato, ma che comunque hai; questo anche perché hai la consapevolezza di avere una vita avanti. Allora combatti, litighi, lotti. Fai lo sciopero, perdi il lavoro, se sei a scuola vieni bocciato. Invecchiando certe cose non te le puoi più permettere. Avremmo dovuto accorgercene  già dalla prime assemblee di istituto che le cose non sarebbero mai cambiate. Credo che più gli anni passino e più si maturino idee forse sempre meno comunicabili all’altro. Le parole divengono sempre più morte, incapaci di rappresentare concetti sempre più complessi. L’unico desiderio è preservare le poche persone e i pochi oggetti a cui teniamo. La famiglia diviene così la prima cosa che tentiamo di difendere dagli attacchi esterni e il primo cerchio all’interno del quale ci stringiamo. In casi estremi questo cerchio si restringe solo a noi stessi; e Pablo è solo, col suo divano, i suoi libri, e qualche volta ci sono io.

domenica 15 maggio 2011

1.0 Il motivo del nostro incontro

1.1 Pablo è vivo  
Pablo è un mio amico. L’ho rivisto dopo dieci anni e, sinceramente, avevo pensato più di una volta che non fosse più tra noi. Sono ormai più di cinque anni che ci incontriamo quasi ogni giorno. Non è che abbiamo tanto da dirci ogni sera, ma a volte ci incaponiamo in discussioni lunghe anche molte ore. E’ molto testardo, difficilmente cambia le sue posizioni ma è molto saggio. Per tutto questo tempo è stato per me una sorta di guru e, in verità, quando ho ascoltato i suoi consigli è difficile che io abbia sbagliato. Pablo ama i fagioli e compra il pane solo quando gli finisce. Pablo ha 85 anni. 


1.2 Il motivo del nostro incontro |15 marzo 2006| 
Ci pensi che miracolo sia incontrarsi..? Intendo dire, incontrarsi per la strada, su un pullman, allo stadio, a un concerto.  Due persone che hanno vite, vizi e storie diverse, in un momento della loro esistenza si ritrovano nello stesso posto a fare talvolta la medesima cosa. Le ragioni di un incontro sono da ricercare nella storia personale di ognuno di noi: capire perché il nostro percorso di vita ci ha portati, ad un certo punto, a trovarci lì, in quel luogo preciso, a quell’ora precisa. E’ questo che voglio fare: passare tutta la notte a capire qual è il motivo del nostro incontro.  Al mattino faccio colazione, mi lavo, mi vesto, cerco le chiavi, scendo le scale ed esco dal portone. Fra l’incastro dei miei tempi e fra quelli di un altro, nasce lo stesso incontro. Ma detta così, la cosa, risulta davvero riduttiva. Se non avessi avuto l’abitudine di fare la colazione, forse scenderei prima la mattina; stessa cosa vale per la buona abitudine di lavarmi. E che dire dell’orario? Quello, non l’ho quasi mai scelto io. Certo, potrei scendere in anticipo, ma non in ritardo! I miei orari, li hanno decisi dapprima i miei genitori (o chi per loro), poi le scuole, i vari istituti, le università che ho frequentato o i posti in cui ho lavorato. Stanotte voglio scavare nella storia recente e meno recente della mia vita per comprendere il vero motivo del nostro incontro. Nelle tue scelte e nelle mie, nella loro tempististica, che non è sempre una scelta ma è soprattutto una questione di attitudine, c’erano già i germi del nostro stesso incontro. Non è avvenuto per caso, anche se non avrei saputo come evitarlo. Non saprei come chiamarla, se coincidenza o destino. Se non avessi scelto quel tipo di scuola, se non avessi conosciuto le persone che me l’hanno consigliata, te ed io non ci saremmo incontrati, ne ora, ne la prima volta dieci anni fa e ne mai.
Ecco, bisognerebbe partire proprio da dieci anni fa. Stessa cosa vale per te.
Non so se ti starai facendo le stesse domande. Ma io vado avanti.
Quante cose abbiamo fatto prima di conoscerci? Quante ne abbiamo passate prima di rincontrarci? Se cambiassimo un solo movimento del nostro passato, tu non saresti ora a fare quello che stai facendo e io non starei qui a scrivere di questo ragionamento-matrioska che più vado avanti e più mi confonde. Mi ha fatto piacere rivederti e sono molto felice che in futuro probabilmente tornerai a far parte della mia vita. Ci sto provando a tornare indietro con la memoria e sto tentando di capire come possa essere accaduto che entrambi ci trovassimo lì proprio in quel momento. Tutto quello che ho fatto da quando sono nato fino ad oggi pomeriggio, riconduce in qualche modo a quest’incontro; Dio solo sa di quanto è stata dura la nostra vita fino ad oggi, quante cose abbiamo guadagnato con fatica, quale sentiero tortuoso abbiamo attraversato per arrivare fino al momento in cui ci siamo ritrovati in quel tratto di strada. Ho lavorato inconsapevolmente venticinque anni per far sì che accadesse e, pensandoci, dico: rifarei tutto. Ci siamo incontrati perché siamo nati! Era in programma la nostra nascita come lo era il nostro incontro. Potrei, quindi, andare indietro fino al momento del concepimento, o ancora peggio, attribuendo il motivo del nostro incontro all’incontro rispettivamente dei tuoi e dei miei genitori, ripercorrendo la loro storia d’amore e il “il loro tempo”, fatto anch’esso di scelte, rinunce, sofferenze. Addirittura le ragioni si potrebbero ricercare nella vita dei nostri nonni. Se non ci fosse stata la guerra, ad esempio, i miei nonni non si sarebbero conosciuti. Quindi, se l’Italia non avesse fatto la guerra, io non sarei nato e noi non ci saremmo incontrati. Più ragiono e più capisco che le variabili sono così tante e che è riduttivo proprio in partenza questo discorso. E’ un disegno troppo grande da comprendere, una matassa troppo lunga da sbrogliare. Una cosa è certa: da quando l’uomo è comparso sulla terra, tutto è stato allineato in modo tale da concederci questo incontro. L’intera Storia del mondo al nostro servizio. Spero davvero che anche tu stia facendo delle riflessioni, perché, quando si incontra una persona, non è mai per caso, quell’incontro lo abbiamo costruito, lo abbiamo faticato, ce lo siamo meritato.