lunedì 12 marzo 2012

Napoli ha quattordici anni.

Ecco, vorrei partire da “Taboo” un gioco di società molto famoso negli anni 90. Citando "Wikipedia": <<lo scopo del gioco è far indovinare ai membri della propria squadra una parola, senza però pronunciare una delle cosiddette parole tabù, ossia un elenco di cinque parole correlate a quella da indovinare. Ad esempio, per far indovinare la parola "Arresto", non si potranno utilizzare "Polizia", "Stop", "Liberare", "Imprigionare" e "Manette">>. 
E’ un passatempo molto divertente e permette di trascorrere la serata in compagnia di amici più o meno sbronzi alle prese con le loro capacità linguistico-intuitive.
Una mia amica mi ha chiesto un pensiero su Napoli –che è la nostra città nativa- senza pronunciare alcune parole sulle quali si fonda una qualsiasi tipo di argomentazione su di essa che si rispetti. Le parole è chiaro che sono le seguenti: pizza, mare, sole, pulcinella, camorra, calcio (olè). Ce ne sarebbero anche altre, ma poi diverrebbe davvero molto difficile.
Clessidra, giochiamo.

Ognuno, quando si esprime, dovrebbe dare per scontato che la sua esperienza personale riesce solo minimamente a rendere l’idea di quello che vuole raccontare. Questo in linea di massima ai giornalisti è molto chiaro, ma quando si parla del posto che voglio descrivervi tutti si sentono in diritto (e solitamente i direttori dei giornali sono complici di questo scempio) di parlare con verità assolute e dogmi inconfutabili. Questo non dovrebbe essere permesso. Della città che vi sto parlando tutti hanno la presunzione di saperne cogliere le caratteristiche più profonde, anche chi non ci è mai stato. Di ciò che non si conosce, in verità, bisognerebbe tacere. Sempre.
L’idea che ho maturato negli ultimi anni della mia vita è che essa la si possa paragonare a un ragazzino di quattordici anni che inizia a fare attenzione al suo modo di vestire. A quell’età, solitamente, si comincia ad avere una percezione più consapevole del mondo e si tende a cercare di manifestare e affermare la propria identità soprattutto attraverso ciò che ci si mette addosso. Il guardaroba, aimè, è però ancora molto povero, la maggior parte degli indumenti li ha scelti la mamma e nella peggiore delle ipotesi la nonna. Si improvvisano accostamenti improbabili quindi, sfiorando il ridicolo. Non so se rendo l’idea.
La città in questione è piena zeppa di grandi centri commerciali dove la gente passa il sabato pomeriggio a spendere gran parte del suo stipendio (incoscienti!) senza pensare al futuro. I bar della zona bene hanno la wi-fi e le persone fanno l’aperitivo dinanzi ai Mac-Book di ultima generazione. Ma, usciti da quei bar, nessuno sa come spendere veramente il proprio tempo e i propri soldi. A pochi chilometri di distanza ci sono i poveri. I poveri si travestono da ricchi e si intromettono nei loro bar (ma senza Mac). Nei bar dei quartieri dei poveri l’unica cosa che troverebbero di buono sarebbe il caffè, -zero tendenza- davvero troppo poco per sentirsi, non dico importanti, ma almeno parte integrante della società (forse caffè non lo potevo dire!).
Come quel ragazzino, questa distesa incontrollata di costruzioni indiscriminate, e la gente che la abita, appare goffa, buffa, mai pronta per il grande salto, mai pronta per affermare la propria identità. Perché nell’armadio ci sono pochi vestiti e, anche se hai gusto, poi finisci sempre per mettere vicino due colori che cozzano.
Cercate una foto di voi a quattordici anni e poi ne riparliamo.