domenica 29 luglio 2012

C'è sempre qualcosa da dire.

Friedrich, Viandante sul mare di nebbia.
Iniziare un post senza conoscere minimamente di cosa voler parlare pur sapendo che qualcosa da dire c’è.
C’è sempre qualcosa da dire. Ci deve essere per forza. Se non c’è niente da dire significa che non c’è mai stato niente di vissuto, di capito. E non è possibile.
Vorrei che, per un momento, tutto quello che mi passa per la testa, senza inibizioni, artifizi o sintattica precostituita, venisse giù come un temporale inaspettato; vorrei che me stesso, il mio animo, si manifestasse interamente nel medesimo discorso e andasse ad accomodarsi indispensabilmente e necessariamente accanto a un tutt’uno più grande dove ci sono “tutte le cose da dire”.  Ma quello che vogliamo dire non si può dire. Possiamo inventare nuove parole, ma questo non significa certo dire qualcosa.
Un errore comune è quello di credere di riuscire, con le parole, a domare il pensiero. Una delle cose che ti dicono gli psicologi è: “dai delle belle parole al racconto dei tuoi giorni”. Ragionando in questo modo riusciamo addirittura a confondere i nostri fallimenti con le nostre soddisfazioni. E mica è poco.
Ma dicevamo, qualcosa da dire c’è sempre. Ma cosa? Come fare a capire dove sono le risposte, come fare a individuare le domande?
Il lavoro, ad esempio, non dovrebbe esistere. Col cazzo che nobilita l’uomo.
L’unica forma di lavoro ammessa dovrebbe essere quella necessaria per l’evoluzione. Direte: “ma il fine del lavorare è proprio quello: costruire oggetti, garantire servizi; è approcciare, appunto, a un tipo di evoluzione!”. Non è vero. Ciò che io voglio intendere è una questione di spirito. Bisognerebbe lavorare con lo spirito giusto. Ergo: in un mondo ideale ognuno di noi farebbe quello  per cui è destinato. Come tutto quello che è presente in natura. Il problema è che noi, un po’ presuntuosamente, ci escludiamo dalla categoria “natura”. Usualmente ragioniamo così: “esiste la natura e poi esistiamo noi”. Ci sentiamo più forti, più intelligenti e solo perché diciamo di avere qualcosa in più del solo istinto. “Mica siamo Cani?”. Ecco appunto. Noi crediamo di parlare perché pensiamo, o di pensare perché parliamo. Ma in verità non c’è nessuna parola da dire perché tutta la verità del mondo è intrappolata lì, fra quel che dico e quello che credo di aver detto e non ci sarà mai nessuna parola o frase che potrà comunicarlo.

martedì 3 luglio 2012

Il Pocho se n'è andato.

Il Pocho se n’è andato. Io romanticamente fino a ieri ho fantasticato sul prossimo campionato immaginandolo con la nuova maglia del Napoli. Un imprevisto, un cavillo contrattuale, un’incomprensione o, perchè no, un altrettanto romantico ripensamento, ero sicuro che avesse fatto saltare il suo passaggio al Paris Saint Germain. Invece no! E’ andato via da Napoli lasciando una città che lo ha amato (e lo ama ancora) alla follia; si è allontanato da chi lo ha creduto giustamente il simbolo di una credibile rinascita calcistica, prima ancora che l’erede di Diego. Noi napoletani abbiamo spesse volte attribuito poteri magici a improbabili giocatori acquistati nel corso degli anni. Ma per il Pocho è diverso. Vederlo giocare è stato davvero qualcosa di magico. Nelle ultime due stagioni quei tre là davanti si sono giustamente meritati l’appellativo di “macchina da guerra” e credo che sarà difficile avere in futuro un attacco forte sulla carta come quello. L'epoca dei "tre tenori" è finita.

L’arrivo di Lavezzi al Napoli me lo ricordo benissimo: un’estate calda come questa, un "trofeo birra Moretti" giocato un po’ male, le prime critiche (si sa, Napoli è una piazza esigente), i miei ventidue anni, i suoi ventidue anni. Ha la mia stessa età il Pocho. 
E poi quella partita di coppa Italia di metà agosto. Ero allo stadio. Il Napoli perdeva uno a zero contro il Pisa. Tra il primo e il secondo tempo, un ragazzino basso e anche visibilmente in carne si riscaldava a bordo campo ballando le canzoni che l’impianto del San Paolo passava. Palleggiava, rideva.
Riiniziata la partità, entrò. Schizzava come una palla pazza in mezzo al campo. Fece tre gol e passammo il turno.
Ho sempre ringraziato Iddio perché, quasi fortuitamente, mi ero ritrovato sugli spalti quella sera. Avevo visto la prima partita di Lavezzi al San Paolo da protagonista, i primi goal. Tornando a casa, Nicola ed io, sentivamo di avere assistito a una serata storica. Da quella partita il Napoli ha sempre migliorato i suoi obiettivi e, quando una squadra di calcio vince, tutta la città è di solito un po’ più allegra. Col tempo ci siamo sempre più convinti che insieme a gente come lui, Hamsik, Gargano (e dopo Cavani) avremmo vinto scudetti e coppe. Dovevamo solo aspettare.

Caro Ezequiel, eccoci ai nostri primi 27 anni. Più ne passano e più le decisioni divengono difficili e ponderate. Abbiamo vinto una coppa Italia e, mentre tu l’alzavi, ricordando quella partita con il Pisa, e forse realizzando solo in quell’attimo di come passa in fretta il tempo, a tutti e due ci è scesa una lacrima.
Io resto a Napoli e tu te ne vai a Parigi.  
Ti voglio bene Pocho, è stato davvero un onore vederti giocare.