mercoledì 28 agosto 2013

Dopo la prima volta tutte le altre sono uguali

Sono le 7 di sera, il sole sta tramontando e Pablo si muove a fatica mentre prepara il caffè. Mi chiede se ne voglio un po' ma gli rispondo che l'ho appena preso al bar. Per un attimo questa cosa mi pare infastidirlo, poi si calma e si siede. Soffia nella tazza. Beve. Mi guarda. Muove le sopracciglia come fa ogni qual volta che vuole iniziare a parlarmi. Parlarmi di qualcosa di serio s'intende.
È un po' di tempo che non mi faccio una chiacchierata seria con Pablo. Ma l'inverno sicuramente ci darà la possibilità di stare assieme molto di più. Lui ed io. Soli. A volte con una bottiglia di vino, altre volte con una di jägermeister. Oggi, stranamente, con un caffè.

Dopo il primo sorso, come già sapevo, Pablo inizia a parlare:
"Nella mia vita mi sono sempre divertito a intuire, nel momento stesso che accadevano, quali erano 'le ultime volte'," mi dice. Porta il caffè alla bocca, sorseggia e completa il concetto dicendo:
"Intendo dire... ho sempre cercato di captare quel momento che accoglie l'ultima volta che vedi una donna, l'ultima volta che metti una maglia, oppure che ne so, l'ultima volta che vedi una casa a cui sei affezionato". 
È un'operazione per certi versi masochistica ma che denota una certa sensibilità che gli riconosco.
'Le prime volte' sono facili da ricordare, penso subito io, ha ragione, perché conservano un carattere di unicità che tutte le altre volte non hanno. Non saprei nemmeno spiegare il perché ma il primo bacio, il primo giorno di scuola, la prima volta che ho detto una parolaccia che mi sembrava più grande di me, la prima volta che ho dato uno schiaffo, la prima volta che sono andato a un funerale, la prima volta che ho mangiato con gusto una zuppa di cozze, la prima volta che ho fumato, la prima volta che sono andato allo stadio, la prima estate da solo con gli amici, sono tutti eventi che ricordo limpidamente.
Dopo la prima volta tutte le altre sono uguali. Ma 'la prima volta non si scorda mai'.
Sì. E va bene. Questo vale per 'le prime volte'. Ma le 'ultime volte' invece? Dove sono andate a finire? Non le ricordo. A parte qualcuna. Qualcuna proprio tragica che in verità sarebbe bene non ricordare. Le 'ultime volte', infatti, le ricordi solo se ti fanno stare malissimo.

Pablo mi racconta che quando era ragazzino erano soliti riunirsi, lui ed i suoi amici, a chiacchierare su una panchina che stava nella piazzetta del paese in provincia di Campobasso dove è nato. Quella panchina era stato il loro posto per tantissimi anni, dice. Quando si usciva di casa si andava lì perché oltre a quella panchina non c'era nulla da fare. Quella panchina era stata come una sala di attesa per Pablo penso io, ritornando con la mente alla mia esperienza personale e al posto in cui mi riunivo quando ero più piccolo con gli amici di allora, un limbo lungo gli anni che bastano per avere il coraggio di scoprire un mondo che però doveva attendere ancora un poco per vedere noi stessi protagonisti. 
In molti hanno avuto un posto del genere dove sfogare i primi discorsi e confessare le prime perversioni. Quindi, partendo dall'idea di quella panchina, non so perché, ma con un volo pindarico, la mia mente va al pensiero prezioso di tutte quelle prime volte che ho appena elencato ed immagino che a farle non ci sia io, ma lui. La vita è così tristemente uguale per tutti forse, deduco. Ed io immagino la vita di Pablo: pochi secondi dei miei pensieri per un'esistenza lunga e dispendiosa come la sua. 
Tornando a Bomba: mi dice che l'avevano personalizzata quella panchina. Era tutta imbrattata: nomi e cognomi dei 'proprietari', sfottò, adesivi, incisioni. Era la loro e ne facevano quel che volevano. Nessuno osava fiatare, nessuno ci si accostava. I vecchi dell'epoca nemmeno ci si avvicinavano.
"Massimo rispetto per i vecchi dell'epoca...," continua Pablo, "...ma sedersi lì, su quel metro e mezzo di gioventù, significava innescare un incidente diplomatico fra generazioni diverse".
Mi racconta poi di una sensazione:
"Siamo morti nel momento in cui siamo migrati da quella panchina".
Penso subito che questa affermazione è tanto poetica quanto forzata. Pablo non è morto. È qui dinanzi a me che ha appena finito il caffè. Ha avuto due mogli e tante altre donne; ha vissuto la guerra e si è goduto quella bellezza che sono stati gli anni '80. Ed è ancora vivo. Più di me. E allora glielo dico:
"Dai Pablo, non dire cazzate!"
Ma lui insiste e ripete tra sé:
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
Noto che è entrato in una sorta di trans profonda, come se in questo momento l'unica cosa importante, l'ultimo motivo per continuare a vivere, sia ricordare quella cosa. Vorrei fargli notare che nulla può ricomparire, per destarlo e farlo tornare coi piedi per terra; le cose accadono, cambiano, ci cambiano. E non è sempre un male. Ma che ne posso sapere io di come si ragiona a 85 anni? Che ne posso mai sapere del tramonto della vita? Come faccio a immaginare in che misura ti possono far soffrire i bilanci che si fanno a una certa età? Vorrei dirgli che è solo un giorno pieno di nostalgia, forse perché l'estate sta finendo. Vorrei dirgli almeno di posare la tazza che ha fra le mani vuota di caffè perché, se continua a stringerla così, mentre cerca di ricordare, la può spaccare e tagliarsi. E non voglio che si faccia male. Vorrei fargli comprendere che, a suo modo, ha ancora una vita davanti. Ecco. Questo. Ci siamo noi, le parole e quel vino che tutte le sere ci scoliamo. Vorrei dirgli che quella panchina esiste ancora, che è lì nella sua casa, e sopra ci siamo seduti adesso lui ed io che parliamo.
Nonostante io non sappia cosa fare lo lascio pensare e mi accendo una sigaretta.
Pablo si sforza ma non riesce a ricordare. Ed è meglio così. 
Restiamo zitti per un'interminabile manciata di secondi e poi lui inizia pian piano a ritornare qui accanto a me da chissà quale mondo delle idee, appoggia la tazza sul tavolino che ci tiene compagnia e dice:
"Che bottiglia apriamo stasera?".  

venerdì 17 maggio 2013

Voglio fare il calciatore | Pablo è vivo


Oggi il pallone sembra più pesante del solito e c’è un sole che mi sta stordendo. Mi brucia qui, proprio in mezzo agli occhi. Giocare a calcio mi pare difficilissimo in questa calda domenica di maggio. La panchina dove siede il Mister (si fa per dire "siede") è situata solitamente in prossimità della linea del fallo laterale e, siccome faccio il terzino, ogni volta che giochiamo, per metà partita sono costretto a stare proprio sotto i suoi occhi. Lui urla in continuazione, con tutti. Oggi però ho l’impressione che lo faccia solo con me. Questa cosa mi dà un po' noia.

Intanto l’ala avversaria mi salta la prima volta: mi dribbla, mi supera in velocità e, quando pare che per un attimo io l’abbia raggiunta, mi sovrasta fisicamente.  Ecco, ora il Mister inizia di nuovo a gridare, lo so già. Se potesse ammazzarmi mi ammazzerebbe: “copriii!”; “fai la diagonaleee!”; “Morà non lo perdereee!”; “spingiii!”. Tutte queste urla mi entrano nel cervello come se fossero piccole picconate che centrano precisamente ogni neurone che mi appartiene. Il sole mi batte forte in testa ed io non so più che cazzo fare. Forse chiedo il cambio.
Prendiamo il primo gol. Poi il secondo. Il terzo è colpa mia. Lo so. Chiedo scusa a tutti. Ma il Mister se ne fotte delle mie scuse. E continua a gridare.
Intanto quelli corrono come i pazzi ed io arranco. Ma non è solo il sole. O forse sì, cioè spero di sì. Non lo so. Sono troppo forti comunque e non tocco più una palla. Sta di fatto che c’è qualcosa di strano in questa partita. Non mi sto divertendo. Non mi diverto più e ho la sensazione che questa giornata me la ricorderò per sempre. Voglio fare il calciatore, ma questa partita è un supplizio. Sto giocando malissimo e mi pare di non saper fare nemmeno più quelle cose che fino a ieri mi riuscivano facilmente. Non ce la faccio, non reggo più. Ho sete. Sete che mi berrei una coca ghiacciata. E voglio stendermi. Non so perché ma sento che questo è un momento importante per me. C’è qualcosa di strano in quello che sta accadendo. È la prima volta che mi succede, è la prima volta che provo questa sensazione. …Intanto ecco, prendiamo il quarto gol. Che squadra di merda che siamo! Oltre al Mister sento urlare anche i compagni di squadra e nella mia mente non c’è nient’altro che quella coca ghiacciata. Chiedo il cambio. Esco dal campo. Momento di felicità.

Vederli giocare da seduti in panca è tutta un’altra cosa. È bello vederli giocare. Se per un attimo riuscissi a dimenticarmi del caldo potrei anche divertirmi. Certi sono proprio fortissimi, qualcuno di loro ce la farà.
La partita finisce. Mi compro la coca, la bevo e me ne torno a casa.

martedì 16 aprile 2013

Immaginare un Nuovo Mondo



Dovremmo iniziare a pensare un Nuovo Mondo.
Bisogna riorganizzare tutto quello che l’uomo ha scoperto e conosciuto in migliaia di anni di storia. 
Si devono lasciar morire tutte le dottrine politiche e/o economiche che suonano ormai obsolete. Senza nostalgia; con una presa di coscienza finalmente seria. 
Abbandonare quindi l’idea di comunismo. E, sebbene oggi pare essere ancora il suo turno, anche quella di capitalismo. L'uomo non può continuare a modellare i suoi pensieri su questi sistemi socio-economici fallimentari; non può convivere con l'illusione e la speranza che, grazie a essi, si possa costruire, finalmente, una società più giusta. Perderebbe (e infatti continua a perdere) dal principio.
Probabilmente, al di là di queste dottrine, esistono territori inesplorati dai pensieri; Verità a un passo da noi che attendono da secoli il loro momento. 
Ancora una volta, le parole, in questo caso quelle che spiegano il comunismo e il capitalismo e che ne determinano poi la loro applicazione concreta, risultano essere la prigione delle potenzialità della nostra mente di immaginare congetture più complesse (o forse meno complesse) e di tendere a un’altra possibile costruzione del mondo.

Quello che dovremmo fare è pensare che l’uomo non è fatto per lavorare soltanto. Anzi. Non è fatto assolutamente per lavorare. 
In principio il lavoro era lo strumento che l’uomo aveva a disposizione per sfamarsi, coprirsi ed essere, a suo modo, “felice”. Oggi, il concetto di felicità, pare invece corrispondere sempre più all’identificazione in un Brand: siamo felici non più quando ci sfamiamo ma quando ci sentiamo parte di un immaginario condiviso da altre persone che, ad esempio, hanno in comune con noi la stessa passione per una marca particolare di cellulare. Ci sentiamo realizzati solo quando sfoggiamo la griffe di una multinazionale sugli indumenti che mettiamo addosso. Lavorare per questo tipo di felicità è un lavorare a vuoto; lavorare per qualcosa che non esiste. In verità, per vivere, non ci serve altro che una casa, un orto e la presenza delle poche persone che amiamo.
Il Mondo al quale siamo rilegati è una menzogna. E’ il frutto di un’incomprensibile voglia dell’uomo di autodistruggersi.

Abbandonare le dottrine politiche che negli ultimi 150 anni hanno alimentato le nostre anime quindi; ma a favore di cosa? In cosa dobbiamo credere? A quale utopia dobbiamo tendere? Su quali questioni dobbiamo interrogarci?
Sicuramente su noi stessi! Il punto cruciale di questo Nuovo Mondo deve essere l’Uomo; il suo vivere in armonia col resto della natura senza relegare la sua vita al solo lavoro.
L’espansione tecnologica non porta direttamente alla felicità. Migliora assolutamente il quotidiano. Non c’è dubbio. Lungi da me schierarmi contro lo sviluppo e la tecnica. Quello che dovremmo domandarci però è: “cosa stiamo sacrificando a favore di tutto questo?”; “esiste una connessione diretta fra felicità e progresso?”.


domenica 3 febbraio 2013

Riflessione dopo il partitone di Mario Balotelli

Andare a votare alle politiche, a questo punto, è diventata una battaglia generazionale.
Le persone nate negli anni 50 e negli anni 60, vale a dire la classe dirigente di oggi, hanno messo noi trent'enni in una pessima condizione esistenziale. E non parlo (solo) del lavoro che non c'è e dei miei amici laureati con lode costretti a faticare per pochi spiccioli; parlo del male di vivere con il quale tutti noi "ragazzi" (ma preferirei usare la parola "Uomini") facciamo i conti ogni giorno. 

Quella generazione, di cui fanno parte anche mio padre e molte delle persone che amo quanto la mia stessa vita, ha fatto degli errori madornali. Ha quasi sempre dato il voto alle persone sbagliate; non ha mai investito in fonti di energia alternative; si è ingrassata e ha mangiato sulle nostre spalle ancora prima che noi nascessimo.
Che non ci vengano più a dire che noi abbiamo avuto tutto! Questo non lo possiamo più accettare.
Ora tocca a noi. Votare. E votare bene.