lunedì 27 giugno 2011

Il ricordo del pulmino giallo.
Racconto autobiografico

Ho sceso le scale di corsa come tutte le mattine. Oggi ho la certezza di non essere una persona puntuale. Alle nove meno venti ho superato quindi il portone del mio palazzo, ho incontrato la mia vicina e, con la scusa di salutarla, le ho guardato il sedere.
È tardi, e lo zaino è troppo pesante per un bambino della seconda elementare.
All’incrocio “pericoloso” (così si era soliti chiamarlo), vicino la posta, mi attende il pulmino che mi porta ogni giorno a scuola. L’autista è un tipo irascibile, sguaiato nei termini e nelle movenze; ho fatto tardi e mi rimprovera sotto le note di “Gloria”.
Nel mio "pulmino giallo" c’è Claudio, un bambino evidentemente con qualche problema; non socializza, porta gli occhiali; gli occhiali doppi. A volte si scaccola, a volte pare quasi ridere, ma da solo. Claudio è un bambino che mangia troppe merendine. Lo prendono in giro, gli dicono che è grasso, gli fanno notare gli occhiali e gli dicono che gli occhiali così doppi sono brutti, gli dicono che puzza. Dicono la verità insomma!
Assisto a questo spettacolo ogni mattino e presto ad esso la stessa attenzione che per il sedere della vicina. Due cose diverse, ma per me di uguale intensità.
Claudio ed io non siamo nella stessa sezione. Io porto il fiocco rosso, lui verde.
A me vogliono bene nel “pulmino giallo” e, mentre mi soffermo sul suo fiocco verde, mal legato o legato di fretta, i miei compagni di viaggio si accaniscono contro di lui in modo quasi malvagio: Marco gli toglie il cappello, Pietro imita gli occhiali. Lui è immobile.
Sto provando compassione, ma non conosco il termine, e quindi, non riesco a dargli una collocazione ben precisa nel mio cervello. Soprattutto non so reagire, non so cosa fare.
Una bambina buffa con i capelli neri e folti si è avvicinata a me con la bocca che le puzza ancora di sonno e mi ha porto una lettera. Non l’ho aperta ancora. Poi ho guardato il mio swatch a cristalli liquidi (un oggetto che mi rende molto fiero), sono le nove meno dieci! Piove forte ma per fortuna ho l’ombrello. Il pulmino giallo è arrivato finalmente a destinazione e il cortile della scuola ci ha accolto proprio mentre la campanella suonava. Grazie a me abbiamo fatto tardi.
Sono sceso dal "pulmino giallo" sotto l’acqua (che aveva l’odore dell’autunno) col mio orologio e con il mio fiocco rosso mentre nel frattempo gli altri continuavano a beffeggiare il chiattone occhialuto. Mi fa tanta pena, soffro davvero, è un’agonia. Quindi, appena sceso, scappo e corro sotto la grondaia per ripararmi dalla pioggia. Poi scende Claudio che, con i suoi dieci chili di troppo, trova un po’ più di difficoltà a sfrecciare. Corre come me, con lo stesso obiettivo, ma è goffo: incespica, scivola, cade. Una pugnalata. Cade per la gioia degli altri, ancora una volta ridono di lui. Secondo me si è fatto davvero male, ma si alza. Finalmente mi raggiunge nell'unico posto dove forse riesce a trovare un attimo di pace: nel mezzo, tra il pulmino giallo e la scuola. Io sotto la grondaia mi riparo dalla pioggia, lui dagli insulti. Si pulisce il pantalone, testa bassa, entra in aula col fiocco verde. Io entro nella mia e le nostre strade si separano.

Mi sono finalmente distratto e oggi ho veramente vinto tante figurine "Panini".
Sono tornato a casa e le ho riposte in una scatola che in principio conteneva dei biscotti. È strapiena. Non riesco a mangiare, anche so ho fame. Mia madre mi ha domandato spesso cosa avessi e io le ho risposto: “nulla”. Poi gliel’ho detto. Lei mi ha carezzato. Mi sento in colpa, ma lei mi ha confessato. Mi sono ricordato della lettera, ho messo la crocetta sul “SI” e mi sono fidanzato.

Claudio rappresenta oggi per me la parola compassione. Ogni volta che provo questo sentimento mi sovviene alla mente il ricordo di quel bambino e non posso non chiedermi se ce l’ha fatta, se quando è scivolato è riuscito a rialzarsi. Questo ricordo è, per me, da sempre associato al colore verde. Un gioco di simboli che il destino ha voluto confermare proprio con quella tonalità che per l'uomo rappresenta la speranza. Il non riuscire a battermi con schiaffi e cazzotti per lui è un senso di colpa che mi sono sempre portato dietro e che ritorna puntuale quando so di essere più fortunato di un altro.
Un senso di colpa pesante che ritrovai, credo proprio in quegli anni, nella prima masturbazione che poi confessai a mia madre per disperazione.
Spesso mi capita di sentire il bisogno di mettere la crocetta su una lettera d’amore o di cercare le braccia di mia madre. Guadagnare entrambe le cose in un giorno sarebbe tornare a quei tempi.

Giugno, luglio, agosto, settembre.


Il vero anno inizia a settembre. Non a gennaio. E’ a settembre che decidi di voltare pagina, che ti iscrivi in palestra, che inizi la dieta, che cambi taglio di capelli. E’ a settembre che ti accorgi che un altro anno è passato e che stai lentamente invecchiando. Le prime promesse con te stesso le inizi a fare dopo ferragosto, quando ti rendi veramente conto che l’estate sta finendo e, per l’appunto, un altro anno se ne va.
A giugno e a luglio, invece, è concesso fare un po’ tutto! Ecco le frasi più in voga per giustificare anche le cose più immorali: “e vabè, è estate”; “che fa, le giornate si sono allungate”; “se non le fai adesso ste cose, quando le fai più?”. E’ giusto, sono d’accordo anch' io: concediamo alla nostra vita qualcosa di diverso da quel rigore che in altri mesi, invece, la domina. Perché, quando arriverà ferragosto, le giornate inizieranno ad essere così brevi che passeranno più veloci dei tuoi buoni propositi; ti ritroverai così il solito ciccione, ma un anno più vecchio.

lunedì 6 giugno 2011

L'allegoria della guerra

Pablo si è fatto un’idea della guerra. L’ha vissuta, analizzata e poi metabolizzata con gli anni. Mi dice sempre che l’uomo ha bisogno ad un certo punto di distruggere, altrimenti non avrebbe nulla da ricostruire; oltre ad essere indispensabili per l’economia di un paese, esse hanno sempre apportato cambiamenti più o meno radicali alla società, trasformandola in meglio, quando si stava scivolando verso il peggiore dei mondi possibili. Vista da questo punto di vista, sembrerebbe quasi una cosa positiva. In effetti potrebbe esserlo, se non fosse che provoca morte e distruzione. E’ un discorso certo da prendere con le pinze: la guerra resta l’atto più meschino che l’uomo abbia mai potuto inventare. Nonostante questo, nessuna civiltà, nessun popolo, nessun individuo è capace a evitarla. Negli anni di pace, si covano tutti i sentimenti che esploderanno in guerra. E’ un atto masochistico, ma necessario.
Ora la questione è questa, e Pablo ed io conveniamo nel medesimo ragionamento: più i decenni passano, più le tecnologie si perfezionano, meno senso ha fare la guerra! Quando si combatteva corpo a corpo, da uomini veri e non erano gli aeri che vigliaccamente lanciano bombe sui civili, ci si poteva ritrovare in essa finanche un qualcosa di leale. I maschi adulti, si scontravano con le spade e, da così vicino, si poteva davvero sentire l’odore del nemico. Ma come dicevamo, la guerra, o per meglio dire, il modo in cui essa si manifesta, dipende dalla tecnica. Tradotto significa che più la tecnica è raffinata e più persone si possono ammazzare con il minore sforzo. Non c’è nulla di faticoso nel lanciare una bomba atomica, credo. In effetti la tecnologia ci permette proprio questo: allontanarci dalla fatica. Abbiamo così, almeno potenzialmente, anche allontanato il rischio di recarci sul campo di battaglia.  Tutti siamo consapevoli che un conflitto atomico rischierebbe di ridurre tutto e tutti in poltiglie in pochissimo tempo. Basta premere un pulsante; Basta un click! E, nell’epoca in cui le distanze sembrano, sempre grazie alla tecnica, azzerate,  anche la guerra non si sottrae a questa logica e si manifesta (si manifesterebbe) in un solo instante ma con la potenza di tutte le guerre mai fatte dall’uomo.
Ma esiste una soluzione rivoluzionaria: trasmigrare tutti i valori di una vera guerra, in una guerra finta. Una sorta di allegoria della guerra. Ho cercato di spiegarla a Pablo, ma lui davvero non riesce a capire a cosa mi riferisco. Bisogna masticare un po’ di rete, essere al passo coi tempi. Lui non sa nemmeno cosa sia un computer. Se un conflitto si riducesse un giorno davvero solo nel pigiare tasti e guidare bombe telecomandate, sarebbe preferibile, anche in senso economico, organizzare una guerra digitale, con tanto di promessa o di giuramento: chi perde, paga.  Una specie di battaglia navale virtuale, che arrecherebbe pochissime spese alle nazioni e occuperebbe il tempo in modo alternativo ai presidenti. Sarebbe addirittura non remoto pensare a un’intera nazione dove ogni singola persona ha la possibilità di partecipare alle ostilità direttamente da casa sua, con tanto di pausa pranzo e senza alcun rischio di perdere la vita o di veder morire i propri cari. Perché noi la guerra ce l’abbiamo dentro, ci è indispensabile, come il pane, e in questo modo, almeno virtualmente, torneremo a combattere corpo a corpo, come un tempo, da veri uomini.