Sono le 7 di sera, il sole sta tramontando e Pablo si muove a fatica mentre prepara il caffè. Mi chiede se ne voglio un po' ma gli rispondo che l'ho appena preso al bar. Per un attimo questa cosa mi pare infastidirlo, poi si calma e si siede. Soffia nella tazza. Beve. Mi guarda. Muove le sopracciglia come fa ogni qual volta che vuole iniziare a parlarmi. Parlarmi di qualcosa di serio s'intende.
È un po' di tempo che non mi faccio una chiacchierata seria con Pablo. Ma l'inverno sicuramente ci darà la possibilità di stare assieme molto di più. Lui ed io. Soli. A volte con una bottiglia di vino, altre volte con una di jägermeister. Oggi, stranamente, con un caffè.
Dopo il primo sorso, come già sapevo, Pablo inizia a parlare:
"Nella mia vita mi sono sempre divertito a intuire, nel momento stesso che accadevano, quali erano 'le ultime volte'," mi dice. Porta il caffè alla bocca, sorseggia e completa il concetto dicendo:
"Intendo dire... ho sempre cercato di captare quel momento che accoglie l'ultima volta che vedi una donna, l'ultima volta che metti una maglia, oppure che ne so, l'ultima volta che vedi una casa a cui sei affezionato".
È un'operazione per certi versi masochistica ma che denota una certa sensibilità che gli riconosco.
'Le prime volte' sono facili da ricordare, penso subito io, ha ragione, perché conservano un carattere di unicità che tutte le altre volte non hanno. Non saprei nemmeno spiegare il perché ma il primo bacio, il primo giorno di scuola, la prima volta che ho detto una parolaccia che mi sembrava più grande di me, la prima volta che ho dato uno schiaffo, la prima volta che sono andato a un funerale, la prima volta che ho mangiato con gusto una zuppa di cozze, la prima volta che ho fumato, la prima volta che sono andato allo stadio, la prima estate da solo con gli amici, sono tutti eventi che ricordo limpidamente.
Dopo la prima volta tutte le altre sono uguali. Ma 'la prima volta non si scorda mai'.
Sì. E va bene. Questo vale per 'le prime volte'. Ma le 'ultime volte' invece? Dove sono andate a finire? Non le ricordo. A parte qualcuna. Qualcuna proprio tragica che in verità sarebbe bene non ricordare. Le 'ultime volte', infatti, le ricordi solo se ti fanno stare malissimo.
Pablo mi racconta che quando era ragazzino erano soliti riunirsi, lui ed i suoi amici, a chiacchierare su una panchina che stava nella piazzetta del paese in provincia di Campobasso dove è nato. Quella panchina era stato il loro posto per tantissimi anni, dice. Quando si usciva di casa si andava lì perché oltre a quella panchina non c'era nulla da fare. Quella panchina era stata come una sala di attesa per Pablo penso io, ritornando con la mente alla mia esperienza personale e al posto in cui mi riunivo quando ero più piccolo con gli amici di allora, un limbo lungo gli anni che bastano per avere il coraggio di scoprire un mondo che però doveva attendere ancora un poco per vedere noi stessi protagonisti.
In molti hanno avuto un posto del genere dove sfogare i primi discorsi e confessare le prime perversioni. Quindi, partendo dall'idea di quella panchina, non so perché, ma con un volo pindarico, la mia mente va al pensiero prezioso di tutte quelle prime volte che ho appena elencato ed immagino che a farle non ci sia io, ma lui. La vita è così tristemente uguale per tutti forse, deduco. Ed io immagino la vita di Pablo: pochi secondi dei miei pensieri per un'esistenza lunga e dispendiosa come la sua.
Tornando a Bomba: mi dice che l'avevano personalizzata quella panchina. Era tutta imbrattata: nomi e cognomi dei 'proprietari', sfottò, adesivi, incisioni. Era la loro e ne facevano quel che volevano. Nessuno osava fiatare, nessuno ci si accostava. I vecchi dell'epoca nemmeno ci si avvicinavano.
"Massimo rispetto per i vecchi dell'epoca...," continua Pablo, "...ma sedersi lì, su quel metro e mezzo di gioventù, significava innescare un incidente diplomatico fra generazioni diverse".
Mi racconta poi di una sensazione:
"Siamo morti nel momento in cui siamo migrati da quella panchina".
Penso subito che questa affermazione è tanto poetica quanto forzata. Pablo non è morto. È qui dinanzi a me che ha appena finito il caffè. Ha avuto due mogli e tante altre donne; ha vissuto la guerra e si è goduto quella bellezza che sono stati gli anni '80. Ed è ancora vivo. Più di me. E allora glielo dico:
"Dai Pablo, non dire cazzate!"
Ma lui insiste e ripete tra sé:
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
"Qual è stata l'ultima volta che mi sono seduto lì?"
Noto che è entrato in una sorta di trans profonda, come se in questo momento l'unica cosa importante, l'ultimo motivo per continuare a vivere, sia ricordare quella cosa. Vorrei fargli notare che nulla può ricomparire, per destarlo e farlo tornare coi piedi per terra; le cose accadono, cambiano, ci cambiano. E non è sempre un male. Ma che ne posso sapere io di come si ragiona a 85 anni? Che ne posso mai sapere del tramonto della vita? Come faccio a immaginare in che misura ti possono far soffrire i bilanci che si fanno a una certa età? Vorrei dirgli che è solo un giorno pieno di nostalgia, forse perché l'estate sta finendo. Vorrei dirgli almeno di posare la tazza che ha fra le mani vuota di caffè perché, se continua a stringerla così, mentre cerca di ricordare, la può spaccare e tagliarsi. E non voglio che si faccia male. Vorrei fargli comprendere che, a suo modo, ha ancora una vita davanti. Ecco. Questo. Ci siamo noi, le parole e quel vino che tutte le sere ci scoliamo. Vorrei dirgli che quella panchina esiste ancora, che è lì nella sua casa, e sopra ci siamo seduti adesso lui ed io che parliamo.
Nonostante io non sappia cosa fare lo lascio pensare e mi accendo una sigaretta.
Pablo si sforza ma non riesce a ricordare. Ed è meglio così.
Restiamo zitti per un'interminabile manciata di secondi e poi lui inizia pian piano a ritornare qui accanto a me da chissà quale mondo delle idee, appoggia la tazza sul tavolino che ci tiene compagnia e dice:
"Che bottiglia apriamo stasera?".