
Nella pizzeria eravamo pochi (ma buoni). C’era un tavolo di anziani; un altro dove era accomodato, stanco, un signore con le mani sporche di grasso, forse un meccanico. Poi c’era una tavolata di sette o otto ragazzini di quindici anni, distratti e sorridenti. In più, ovviamente c’eravamo noi. Non tutti erano seduti nella posizione giusta per guardare la televisione. Per quanto mi riguarda ero nell’angolo migliore. Sembrava proprio l’avessero messa lì apposta per il sottoscritto. Per la ventesima volta, quindi, avrei potuto quindi vedere “Titanic”.
Iniziato il film, in particolare quando comincia proprio la ricostruzione storica, si erano accomodati un altro paio di tavoli e, mentre Di Caprio vinceva la partita di poker che lo avrebbe portato poi al suo viaggio verso l’amore, o verso la morte, è calato un silenzio surreale sulla pizzeria. Le persone hanno iniziato a cambiare posto per accalappiarsi una vista migliore. Sono entrate due ragazze e mentre si sedevano hanno esclamato: “Uh Titanic!”. Adagiate sulle sedie, poi, hanno smesso di parlare fra loro. In pochi minuti tutti erano un tutt’uno con il televisore.
Osservando questa scena mi sono reso conto di quanto sia universale il linguaggio del cinema, di quanto alcuni films facciano ormai parte di un patrimonio comune; qualcosa di potente tale da far restare grandi e piccini, mentre fuori si consumava una piovosa domenica d’aprile, incollati al televisore di quella pizzeria. Noi tutti, zitti, muti e credendo di essere al cinema, abbiamo sperato anche stavolta, come la prima volta, che quella nave non sarebbe mai affondata.