Dopo pochi minuti che ci eravamo seduti al tavolo otto di una pizzeria più che proletaria, ci siamo accorti che in televisione davano “Titanic”. Per quanto se ne possa parlare male per fare i fighi, il film in questione, è molto più che una semplice storia d’amore. Può piacere o non piacere, certo. Ma ci siamo resi subito conto dell’impatto che nell’immaginario ha avuto e continua ad avere questo (capo) lavoro di Cameron.
Nella pizzeria eravamo pochi (ma buoni). C’era un tavolo di anziani; un altro dove era accomodato, stanco, un signore con le mani sporche di grasso, forse un meccanico. Poi c’era una tavolata di sette o otto ragazzini di quindici anni, distratti e sorridenti. In più, ovviamente c’eravamo noi. Non tutti erano seduti nella posizione giusta per guardare la televisione. Per quanto mi riguarda ero nell’angolo migliore. Sembrava proprio l’avessero messa lì apposta per il sottoscritto. Per la ventesima volta, quindi, avrei potuto quindi vedere “Titanic”.
Iniziato il film, in particolare quando comincia proprio la ricostruzione storica, si erano accomodati un altro paio di tavoli e, mentre Di Caprio vinceva la partita di poker che lo avrebbe portato poi al suo viaggio verso l’amore, o verso la morte, è calato un silenzio surreale sulla pizzeria. Le persone hanno iniziato a cambiare posto per accalappiarsi una vista migliore. Sono entrate due ragazze e mentre si sedevano hanno esclamato: “Uh Titanic!”. Adagiate sulle sedie, poi, hanno smesso di parlare fra loro. In pochi minuti tutti erano un tutt’uno con il televisore.
Osservando questa scena mi sono reso conto di quanto sia universale il linguaggio del cinema, di quanto alcuni films facciano ormai parte di un patrimonio comune; qualcosa di potente tale da far restare grandi e piccini, mentre fuori si consumava una piovosa domenica d’aprile, incollati al televisore di quella pizzeria. Noi tutti, zitti, muti e credendo di essere al cinema, abbiamo sperato anche stavolta, come la prima volta, che quella nave non sarebbe mai affondata.
Pablo è un mio amico di 85 anni. Per un periodo ho pensato che fosse morto; invece era vivo. Ogni sera ci vediamo e parliamo.
lunedì 16 aprile 2012
venerdì 13 aprile 2012
Le lettere da riempire
“Quali sono le parole che ti fanno paura solo a sentirle?”, mi ha chiesto Pablo l’altra sera.
“Quali sono quei termini che se pronunciati innescano un meccanismo perverso nella tua mente?”.
“Ti sei mai fatto questa domanda?”, mi ha detto.
“Sinceramente no!”, gli ho risposto.
Ogni espressione porta con se, oltre al suo significato letterale, una serie infinita di rimandi concettuali. Una parola, per fortuna (e purtroppo), non è mai solo quella parola; non è mai solo quella cosa che sta a significare; non è mai solo quel concetto che cerca di raccontare.
E’ la maledizione della lingua: da sempre non si sa come utilizzarla nel modo giusto; nessuno conosce la reazione che provoca questo o quel modo di impostare un discorso.
E allora, che parole utilizzare?
A pensarci bisognerebbe stare attenti ogni qual volta si apre la bocca e ancora di più quando si scrive qualcosa, perché ciò che scrivi è per sempre. Per non parlare poi di quando si pronunciano termini come amore, passione, odio, fede. Di cosa stiamo parlando? E’ un continuo non capirsi perché le cose non tangibili sono ancora meno universali, in verità non sarebbero per niente universali ma da millenni gli uomini fanno finta che lo siano.
E quindi, un po’ stile Nanni Moretti in “Caos calmo”, ho provato a fare una lista di alcune parole comuni che contribuiscono a non farmi sentire a mio agio in questo mondo di ladri.
FILA
Quando penso alla fila penso alla "fila in autostrada", alla "fila al supermercato", alla "fila dal dottore". Una noia mortale. Chiunque odia le file. Una parola così corta per delle file così lunghe, mhà.
“Quali sono quei termini che se pronunciati innescano un meccanismo perverso nella tua mente?”.
“Ti sei mai fatto questa domanda?”, mi ha detto.
“Sinceramente no!”, gli ho risposto.
Ogni espressione porta con se, oltre al suo significato letterale, una serie infinita di rimandi concettuali. Una parola, per fortuna (e purtroppo), non è mai solo quella parola; non è mai solo quella cosa che sta a significare; non è mai solo quel concetto che cerca di raccontare.
E’ la maledizione della lingua: da sempre non si sa come utilizzarla nel modo giusto; nessuno conosce la reazione che provoca questo o quel modo di impostare un discorso.
E allora, che parole utilizzare?
A pensarci bisognerebbe stare attenti ogni qual volta si apre la bocca e ancora di più quando si scrive qualcosa, perché ciò che scrivi è per sempre. Per non parlare poi di quando si pronunciano termini come amore, passione, odio, fede. Di cosa stiamo parlando? E’ un continuo non capirsi perché le cose non tangibili sono ancora meno universali, in verità non sarebbero per niente universali ma da millenni gli uomini fanno finta che lo siano.
E quindi, un po’ stile Nanni Moretti in “Caos calmo”, ho provato a fare una lista di alcune parole comuni che contribuiscono a non farmi sentire a mio agio in questo mondo di ladri.
FILA
Quando penso alla fila penso alla "fila in autostrada", alla "fila al supermercato", alla "fila dal dottore". Una noia mortale. Chiunque odia le file. Una parola così corta per delle file così lunghe, mhà.
IRREVERSIBILE
Da quando ho capito cosa significa veramente niente è stato più lo stesso.
PALO
Questo termine non ha proprio niente di bello. Puoi sbatterci contro mentre sei distratto e farti molto male; viene utilizzato spesso nel gergo comune per dire che praticamente una ragazza non ti vuole; nel calcio significa un “non goal”. Nulla di fatto.
BERNOCCOLO (E’ colpa dei pensieri associativi)
Associato appunto da sempre al dolore.
MALATTIA
Mi ha sempre rimandato a qualcosa di sporco. Forse a causa di alcune frasi che mi dicevano da bambino: “Non toccare che si prendono tante malattie”; “Non avvicinarti a quel cane che è malato”.
QUADRIMESTRE
Reminiscenze scolastiche. Prove di vita. Paura di non essere all’altezza dei tuoi compagni.
VUOTO
Il nulla, inutile.
Il vuoto, se pensate, è palesemente visibile sia nella prima che nella seconda lettera della parola stessa.
La "V" e la “U” mi hanno sempre dato questa impressione di essere qualcosa di incompleto, delle lettere da "riempire". Ma con cosa?
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